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Pain point: il caso Ikea

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Il caso Ikea dimostra come la gestione consapevole dei pain point possa trasformarsi in un elemento strategico della Customer eXperience (CX), rappresentando quegli ostacoli, disagi o frustrazioni che un cliente può incontrare durante l’interazione con un’azienda, i suoi prodotti o i suoi servizi. La loro gestione non è solo una questione di efficienza operativa, ma diventa un elemento centrale nella percezione complessiva di un brand. La strategia con cui un’azienda sceglie di affrontare questi pain point può fare la differenza tra un’esperienza mediocre e una distintiva, capace di fidelizzare i clienti nel lungo periodo.

Non tutti i pain point sono però accettabili. Devono avere le seguenti caratteristiche per essere “good pain”:

  • permettere di offrire un “branded pleasure” significativo;
  • essere parte di uno “scambio di valore” con il cliente;
  • contribuire al mantenimento della promessa del brand;
  • non raggiungere un livello inaccettabile per i clienti target;
  • non essere “unnecessary pain” , non generano alcun valore per i clienti;
  • non essere “de-branded pain” perché rifletterebbero la promessa del brand non mantenuta.

Alcuni marchi hanno trasformato la gestione strategica dei pain point in un vero e proprio vantaggio competitivo. IKEA, in particolare, è un esempio emblematico di come un brand possa integrare consapevolmente determinati elementi di “disagio” nell’esperienza cliente per rafforzare la propria identità e differenziarsi nel mercato. Questa prospettiva è approfondita nella strategia “Pain Is Good” (PIG), un modello che sovverte l’approccio tradizionale della customer-centricity e spiega perché eliminare ogni ostacolo non sia sempre la scelta migliore.

Il caso Ikea

Chiunque abbia visitato uno dei negozi Ikea può confermare che l’esperienza d’acquisto presenta alcune difficoltà evidenti:

  • il percorso obbligato che costringe i clienti a seguire un itinerario predefinito, spesso lungo e articolato;
  • la limitata disponibilità di assistenza da parte del personale, che spinge il cliente a muoversi in autonomia;
  • le lunghe code alle casse, soprattutto nei fine settimana o durante le promozioni
  • e infine, la necessità di montare i mobili da soli una volta tornati a casa.

Tutti questi aspetti potrebbero, a prima vista, sembrare delle criticità da correggere, dei difetti da eliminare per semplificare l’esperienza, ma in realtà fanno parte di una strategia ben precisa e calibrata nel tempo. Questi “good pain” sono tollerati dai clienti, e anzi spesso accettati con consapevolezza, perché permettono a Ikea di offrire un vantaggio chiave: prezzi accessibili su mobili ben progettati e funzionali. Il compromesso tra il piccolo disagio e il grande beneficio economico si traduce in un’esperienza che, nonostante le apparenti difficoltà, viene percepita in modo positivo. È proprio questa combinazione tra sacrificio e ricompensa a creare il cosiddetto “Pleasure-Pain Gap” (PPG), ovvero un divario strategico tra gli sforzi richiesti al cliente e il valore ricevuto in cambio.

Eliminare questi pain point, magari offrendo montaggio gratuito o un servizio clienti più capillare, implicherebbe un aumento dei costi che comprometterebbe la brand promise di Ikea. Il vero valore, quindi, non sta nell’eliminazione indiscriminata degli ostacoli, ma nella gestione consapevole di ciò che i clienti sono disposti a tollerare per ottenere il beneficio più importante: arredare la propria casa con stile e a prezzi accessibili.

Questo caso mostra chiaramente i limiti di una customer-centricity convenzionale che punta ad azzerare ogni sforzo del cliente. La logica dell’“effortless experience” può infatti portare a un servizio indistinguibile dalla concorrenza, privando il brand di quegli elementi che lo rendono memorabile. La strategia PIG, al contrario, propone un approccio più selettivo: invece di cercare di eliminare ogni difficoltà, suggerisce di identificare e mantenere quei pain point che, se ben bilanciati, rafforzano la brand promise e aumentano la soddisfazione complessiva del cliente.

In conclusione, una gestione strategica dei pain point può trasformarsi in un vantaggio competitivo, aiutando le aziende a costruire un’identità forte e distintiva. Non si tratta di rendere l’esperienza più semplice a tutti i costi, ma di comprendere quali “good pain” possano essere accettati dal cliente in cambio di un beneficio superiore.

La customer-centricity tradizionale, con il suo obiettivo di ridurre al minimo ogni sforzo, rischia di rendere le esperienze piatte e facilmente imitabili. Mentre la strategia PIG, invece, promuove un modello più equilibrato, in cui il “dolore” diventa parte integrante di un’esperienza più ricca e significativa per il cliente. È importante per il tuo business scoprire come applicare la strategia PIG alla tua azienda. Contattaci per una consulenza mirata.

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